Il Vir Magnificus di Santa Giulia

 

Nel febbraio 1859 a Lucca davanti alla chiesa di Santa Giulia furono travati tre sepulture; due contenevano resti ossei in differenti stati di conservazione (con ogni probabilità riferibili a più individui, inumati in diversi momenti storici), la terza invece apparteneva ad un uomo dotato di un ricco corredo funerario di età longobarda (1), Il Vir Magnificus di Santa Giulia.

 

Il rinvenimento fu divulgato sul periodico lucchese L’utile.

Giornale scientifico artistico industriale e morale che sul numero del 29 febbraio del 1859 riportava:

«di fronte alla chiesa sull’angolo che guarda mezzodì si rinvenne per il primo un sepolcro coperto di una pietra che certo aveva già servito ad altro uso e che era circa un braccio sotto il livello attuale della via: scoperchiatolo, si vide che la pietra, perché troppo stretta, non lo chiudeva bene sui lati, di dove era penetrata assai terra.

Fra questa si rinvennero alcuni frammenti di ossa umane, una croce in cui dovevano essere incastonate piccole pietre, vari pezzi d’oro (circa mezza libbra) lavorati a pressione e tutti rappresentanti due delfini intrecciati i quali pezzi sia per forma loro, sia per la disposizione in cui furon trovati sarebbe a credere avessero formato una collana.

Vi si trovarono inoltre la fibbia e il puntale d’oro di una cintura, varie croci non piccole di sottilissima lama pure d’oro e molti fregi dorati mediante sovrap-posizione di una laminetta, e rappresentanti teste di cavalli, leoni e l’immagine di un guerriero con uno stendardo; i quali insieme ad una grossa borchia a mezza sfera è chiaro appartenevano ad uno scudo o rotella di cui sonovi anche altri avanzi.

Finalmente furono in questo sepolcro rinvenuti i resti di uno stile o di una spada, di un’alabarda, di un piccolo vaso di cristallo opaco, ed anche la mandibola di un animale, forse di un cavallo.

Oltre a questo sepolcro altri due ne furono trovati lì presso alla profondità stessa, nei quali erano ossa di molti cadaveri appartenenti a tempi diversi, siccome ne assicura lo stato molto diverso della loro conservazione. Le mura di questi sepolcri erano composte in gran parte di rottami di pavimento romano a scagliola: l’ammattonato di essi era formato di pezzi di quadroni simili ad uno trovatovi intero che ha la misura di once 13 per ogni suo lato.

Sotto il pavimento stesso era, misto a poca terra, uno strato di frammenti di vasi romani e alcuni forse etruschi»(2).

Tra i reperti recuperati ad una profondità maggiore vi sono una lucerna romana e una moneta dell’imperatore Claudio. Diverse favorevoli congiunture concorsero alla conservazione degli oggetti, unitamente al valore  intrinseco dei reperti che mantenne vivo l’interesse delle autorità sul loro destino, malgrado da più parti venissero avanzate rivendicazioni sulla loro proprietà.

Con la scoperta ebbe inizio una prolungata traversia storiografica

Il materiale di corredo della sepoltura per lungo tempo, tra errori di attribuzione cronologica, lo smembramento in due distinti rinvenimenti pertinenti a due diversi contesti, fino alla ricomposizione della sua unitarietà avvenuta nel 1961.

Subito dopo il rinvenimento, probabilmente per la presenza delle armi e delle croci d’oro, si diffuse l’opinione comune che l’inumato con ricco corredo fosse un membro illustre dell’Ordine di San Giacomo d’Altopascio, altrimenti noto come Ordine dei Frati Ospitalieri di San Jacopo, che nel secolo XII era attestato a Santa Giulia.

Per tale motivo, all’indomani del rinvenimento, Lelio Ignazio di Poggio, priore della confraternita del Santissimo Crocifisso di Santa Giulia (che si designava come erede moderna dell’ordine medievale) avanzò una supplica al gonfaloniere Cesare Bernardini per ottenere gli oggetti rinvenuti o un compenso in denaro secondo quanto “ravvisato dalla giustizia”.

Il parere sulla controversia, affidato all’avvocato Francesco Carrara, noto giurista lucchese, sancì l’attribuzione al Comune dei preziosi oggetti in quanto ritrovati sotto il selciato di una pubblica strada durante l’esecuzione di lavori di pubblica utilità.

Un secondo tentativo, anch’esso senza esito, fu avanzato dall’impresario Agostino Martini che, come artefice del rinvenimento, sulla base dell’articolo 716 del codice civile allora in vigore, pretendeva la consegna di metà degli oggetti rinvenuti. Anche il successivo ricorso alle disposizioni del Tribunale di prima istanza, sfavorevoli all’impresario lucchese, ottenne esito negativo. In tal modo prendeva corpo una forma, ancora embrionale, di tutela del patrimonio archeologico da parte degli enti civici(3).

Nel mese successivo al rinvenimento gli oggetti furono consegnati a Paolo Sinibaldi, conservatore della Commissione sopra le Belle Arti, e quindi depositati nella locale pinacoteca in tre diverse cassette (4), dove rimasero ignorati per quasi mezzo secolo.

Solo nel 1907 questi pezzi furono studiati e parzialmente pubblicati da Pietro Toesca.

Corresse le errate datazioni precedenti classificando i reperti lucchesi come “barbarici”(5). Superati i problemi di attribuzione cronologica, cominciarono in questa fase i dubbi circa la provenienza, difatti quando il Toesca vide i materiali, questi erano ancora conservati nelle tre cassette in cui erano stati deposti originariamente, al cui interno vi erano anche delle diciture che ne illustravano il contenuto e la provenienza.

Tali diciture, redatte al momento della prima frettolosa suddivisione, riportavano: «ornamenti del secolo XI appartenenti ai cavalieri dell’Altopascio, trovati presso la chiesa di Santa Giulia», per la prima scatola che conteneva le crocette auree e la cintura multipla; «ornamenti del XII secolo trovati in una tomba presso la chiesa di San Romano», per la seconda scatola che comprendeva le appliques in bronzo dorato dello scudo; «avanzi d’armatura romana trovati in una tomba presso la chiesa di San Romano», per la terza scatola con l’umbone dello scudo e gli altri oggetti frammentari in ferro, nonché la lucerna e la moneta di Claudio, che furono rilevanti per l’attribuzione all’età romana.

Il corredo venne così smembrato in due distinti rinvenimenti: la preziosa cintura reggiarmi, le crocette auree e la croce enkolpion vennero attribuite alla sepoltura rinvenuta a Santa Giulia, mentre lo scudo da parata e gli altri elementi in ferro furono distribuiti fra più sepolture, di diversa cronologia, deposte nella chiesa di San Romano o nei suoi dintorni. L’unitarietà del corredo e la sua corretta attribuzione alla chiesa di Santa Giulia furono ristabiliti da Gino Arrighi nel 1961(6), quando venne aperta a Lucca una Esposizione di documenti e cimeli risorgimentali, in occasione del centesimo anniversario dell’unità d’Italia(7).

Tra i documenti esposti, al n.1 del Catalogo, compariva la prima annata di pubblicazione dell’Utile, il giornale che divulgò il dettagliato resoconto del rinvenimento con tutti i materiali ritrovati. Fu questa occasione che permise allo studioso lucchese di conoscere le vicende del ritrovamento e la sua giusta contestualizzazione in connessione con la chiesa di Santa Giulia.

Contesto dello scavo.

La ricca sepoltura fu ubicata in posizione privilegiata davanti la facciata della chiesa di Santa Giulia(8), nell’angolo meridionale. È verosimile che «l’anonimo longobardo di Lucca, come del resto nello stesso tempo disponeva il suo re Rotari, si fosse fatto seppellire in una chiesa(9), forse una eigenkirche, in stretta relazione con la diffusione del culto delle reliquie di Santa Giulia a Lucca, collegate alle prime esperienze marinare dei Longobardi”(10).

Difatti l’adventus reliquiae (cioè l’arrivo in città delle reliquie di un santo) era un motivo determinante per la fondazione di nuove chiese, anzi le intitolazioni di alcune chiese costituiscono una spia preziosa per la data di fondazione di un edificio in concomitanza con la diffusione nel territorio delle reliquie(11).

La non casuale sovrapposizione fra edificio sacro e deposizione e l’intitolazione alla santa Cartaginese(12) concorrono, dunque, nel definire l’origine della chiesa da ascrivere certamente al VII secolo(13), anche se la prima menzione della chiesa di Santa Giulia in Lucca(14) si ha in un documento del 900, nel quale il vescovo di Lucca scambia dei beni con Adalbertus archid. Filio b. m. Aloni(15).

L’arcidiacono Adalberto è figlio di un Allone, nome riconducibile alla famiglia degli Allucingoli(16), indicati come i probabili fondatori della chiesa. Infatti, in un documento che riassume le donazioni fatte al Vescovato in vari momenti, datato dal Bini all’XI secolo, viene riportato: «De Beneficio Aloni figlio (sic) Angalberti, habet ecclesiam Sante Julie, cum sala curte et orto».

L’edificio sacro, però, risulta inserito tra i beni del vescovato già nel 964(17).

Inoltre al momento del restauro duecentesco, la chiesa viene indicata come Santa Giulia de curte Alocingorum per la sua prossimità alle case e ad altri possessi da parte degli Allucingoli(18).

Topograficamente è situata appena sopra il decumano massimo, nel quadrante di nord-est e nella stessa posizione, all’interno delle maglie della città romana, che la chiesa di Santa Giulia occupa a Brescia (19).

In questo contesto si verificherebbe, dunque, l’azione evergetica di una potente famiglia aristocratica che si farebbe carico dell’edificazione di una eigenkirche, sul modello della dinastia regnante e sotto la spinta della traslazione delle reliquie della martire Giulia a Lucca, elemento di forte impatto sociale poiché l’acquisizione di nuove reliquie diviene un elemento di forte prestigio cui ricorrono gli esponenti delle élites longobarde in un clima di forte competizione politica e sociale al fine di creare consenso e rafforzare il potere e il prestigio personale (20).

Il seppellimento in connessione ad una chiesa riflette i mutamenti intervenuti nell’autorappresentazione della classe dirigente germanica nell’arco di pochi decenni (21).

Nel caso lucchese si coglie, da una parte ancora l’attaccamento alle forme tradizionali di autorappresentazione affidata alla presenza di un corredo funerario prestigioso, dall’altra l’apertura a forme nuove di rappresentazione personale.

Queste nuove dinamiche si traducono presso i ceti più elevati, nella fondazione di chiese o di cenobi, la cui gestione è amministrata nell’ambito parentale e presso i quali le élites si fanno inumare; inoltre questo fenomeno è strettamente connesso alle nuove forme di trasmissione ereditaria dei beni, soprattutto terrieri, che l’editto di Rotari codificò mediante apposite norme, sia in senso orizzontale, all’interno cioè dello stesso gruppo parentale, sia in senso verticale tra le diverse generazioni (22).

L’energia spesa nella realizzazione del struttura tombale è un altro elemento che testimonia l’esclusività della sepoltura: il defunto era deposto in una cassa in muratura costruita conframmenti di laterizi romani, nelle spallette e nel fondo; la copertura era costituita da una lastra monolitica più corta rispetto alle dimensioni della cassa, e per analogia con altre situazioni simili, è ipotizzabile una seconda lastra più piccola che, affiancata alla prima, sigillava il sepolcro (23).

Nel contributo dell’Utile, infatti, è segnalata la presenza di molta terra all’interno della tomba, penetrata perché la sola lastra rinvenuta lasciava scoperta una parte della sepoltura.

Sulla base delle informazioni in nostro possesso è lecito ipotizzare che la sepoltura abbia subìto una parziale manomissione, un danneggiamento casuale con parziale violazione, che ha causato l’infiltrazione di terreno. Questa intrusione è da localizzare probabilmente all’altezza dei piedi dell’inumato, verso la facciata della chiesa. Difatti la cintura, deposta sul bacino dell’inumato, fu certamente rinvenuta “in connessione”, in quanto i pezzi della stessa, sia per forma loro, sia per la disposizione in cui furon trovati sarebbe a credere avessero formato una collana; questo particolare testimonia la pertinenza degli elementi al momento dell’apertura della tomba, facendo presumere l’integrità della porzione centrale della sepoltura.

La presenza della cuspide di lancia esclude la manomissione nei pressi della testa, infatti, essendo un’arma inastata e di conseguenza lunga, poteva essere deposta solo lungo i fianchi dell’inumato, con la cuspide all’altezza della testa. A confermare quest’ultima tesi concorre il ritrovamento delle cinque crocette auree, cucite abitualmente sul velo funebre che copriva il volto e le spalle dell’inumato( 24).

Lo scudo, deposto indifferentemente lungo i fianchi oppure vicino ai piedi o alla testa, non è indicativo ai fine della localizzazione della violazione.La mancanza di alcuni elementi solitamente deposti ai piedi del defunto, come gli speroni o il bacile copto, costituiscono un ulteriore indizio della manomissione della sepoltura a ridosso degli arti fornita dall’articolo di giornale, in questo caso la spada non sarebbe perduta.

Le cinque crocette auree sono tutte di grandi dimensioni e prive di decorazioni(26); hanno bracci uguali con terminazioni lievemente espanse (croci greche potenziate) ed in casi analoghi erano disposte generalmente con una croce centrale e altre quattro disposte agli angoli. Il numero elevato delle crocette e le dimensioni stesse delle lamine concorrono a sottolineare l’importanza e il rango elevato del defunto perché sono in stretta relazione alla fisionomia sociale dell’inumato, in genere in uomo adulto di elevato livello di ricchezza(27).

Le crocette longobarde costituiscono, difatti, un fenomeno non solo religioso ma hanno anche valenze politiche e sociali, soprattutto nei casi in cui compaiono alcuni motivi particolari come le impressioni monetali e i monogrammi(28).

Inoltre un numero così elevato di crocette è stato rinvenuto soltanto in poche sepolture prestigiose, cronologicamente comprese negli anni a cavallo tra la fine del VI ed il primo ventennio del VII secolo, quasi inferiori; in particolare è fortemente plausibile che gli speroni fossero compresi in un corredo così sontuoso, anche se non c’è la certezza. sempre in connessione, come nel nostro caso, con guarnizioni e puntali pertinenti a cinture auree(29).

La cintura per la sospensione delle armi (fig. 3), databile entro il primo trentennio del VII secolo, è eccezionale sia per la qualità tecnica sia per il materiale impiegato; la fattura accurata rimanda certamente all’ambito produttivo bizantino(30).

È costituita da una fibbia bronzea rivestita d’oro, a placca mobile liscia, da un puntale principale, da cinque piccoli puntali secondari e da dieci placche, tutti con decorazione a virgole e con due delfini rampanti contrapposti (fig. 4).

La decorazione delle placchette e dei puntalini Mancando un rilievo topografico, si ignora la reale ubicazione della sepoltura: è noto che fosse a ridosso dell’angolo meridionale rimanda sia al mondo marino, richiamandosi al tema del viaggio e forse idealmente, anche a quelle che il Ciampoltrini definisce come «le prime esperienze marinare» dei Longobardi (31), sia alla figura di Cristo come simbolo di salvezza (32) della facciata della chiesa di Santa Giulia; proprio per questo non è da escludersi che la sua manomissione sia stata causata o dai lavori Sulla base della forma dell’umbone è possibile datare la sepoltura di Santa Giulia intorno alla metà del VII secolo (33), in un momento storico in cui all’interno delle sepolture vengono deposte prevalentemente cinture in ferro ageminato (34).

Colpisce, dunque, la deposizione di una cintura aurea in una sepoltura con questa cronologia, difatti, la presenza di materiale prezioso all’interno delle sepolture conosce una ampia diffusione agli inizi del VII secolo per diminuire  rasticamente nei decenni successivi; forse non è un caso che, in concomitanza con la progressiva rarefazione dei manufatti aurei, si registri all’interno delle sepolture la comparsa delle appliques sugli scudi (35).

Dello scudo si sono conservate solo le parti metalliche: l’umbone in ferro, alcune lamine in bronzo (rame?) dorato, decorate mediante punzonature, e parte dell’impugnatura costituita dalla maniglia ferrea e dai resti di due borchie in bronzo dorato. L’umbone è in ferro forgiato e modellato mediante martellatura, con calotta emisferica a cerchio leggermente oltrepassato, su base troncoconica e larga tesa piatta con bordo esterno inclinato verso il basso (fig. 6).

La specifica forma dell’umbone, consente di rifacimento dell’edificio in età duecentesca oppure al rinnovo della facciata ad opera di Coluccio di Collo alla metà del Trecento. La sua parziale asportazione localizzabile proprio in prossimità della facciata avvalora l’ipotesi di uno scasso dovuto a lavori edili e non ad una depredazione intenzionale che non avrebbe risparmiato i preziosi manufatti che si sono conservati fino a noi.

Corredo

 

Diversi oggetti recuperati sono purtroppo andati perduti, in particolare quelli in materiale non prezioso come la spatha, la cuspide di lancia, il vaso di vetro, i reperti di età romana, nonché tutti i resti osteologici, sia relativi all’inumato sia la mandibola di cavallo, che avrebbero potuto fornire preziose indicazioni. Gli altri reperti sono esposti al museo di Villa Guinigi a Lucca.

Del corredo si conservano cinque crocette auree, le guarnizioni auree di una cintura multipla per la sospensione delle armi, i resti metallici di uno scudo da parata(25), una piccola croce enkopion in oro, un coltello o piccolo scramasax, ed un altro scramasax attribuito a questa sepoltura: non è chiaro se quest’ultimo sia stato confuso con i resti di uno stile o di una spada ricordati dalla descrizione datarlo per confronto(36) ai decenni centrali del VII secolo (640 – 660 d.C. circa).

La tesa è rivestita da una lamina in bronzo dorato, decorata da una fila di punzonature a ‘S’(37) racchiusa entro due linee incise, su cui è presente un’iscrizione, leggibile solo parzialmente, che costituisce l’unico caso di iscrizione su un umbone longobardo, finora noto(38). L’iscrizione è realizzata mediante punzonature puntiformi e richiama il salmo 70: ”… ADA[D]IVVANDUM ……”, [domine] ad a(d)iuvandum [me festina](39).

L’impiego consapevole e accurato della scrittura al fine della trasmissione di un messaggio pone alcuni interrogativi: da una parte esso si connette strettamente al problema del grado di alfabetizzazione di artigiani e committenti longobardi, dall’altra, l’utilizzo di messaggi o richiami a valori cristiano-cattolici chiama in causa la questione dell’effettiva conversione dei Longobardi, o almeno delle élites longobarde, in connessione al fenomeno della persistenza di un patrimonio simbolico e culturale di ascendenza romano-cristiano, e della sua forza di penetrazione presso le fasce elevate e colte della società. Il fenomeno dell’acculturazione dei Longobardi(40), sia in senso alfabetico sia in senso cristiano, sembra procedere secondo un percorso non lineare.

Da una parte lo scudo di Santa Giulia e altri manufatti(41) inducono a propendere per un alto grado di alfabetizzazione delle élites longobarde per l’accuratezza e la consapevolezza dell’uso della scrittura, dall’altra questi oggetti coesistono con manufatti dove è predominante invece il valore simbolico della lettera che si appone sul pezzo e che possono essere messi in stretta connessione all’uso sacrale o magico-apotropaico della parola, nonché a processi di alfabetizzazione(42).

Sulla tesa sono presenti cinque borchie in bronzo dorato, a testa piatta e margine in sbieco, decorate lungo i margini da una fascia di punzonature ad ‘s’ tra due linee incise che servivano per fissare l’umbone metallico al disco ligneo. Una sesta borchia, in bronzo dorato, con testa piatta e alti margini ricurvi, di dimensioni più piccole delle precedenti e decorata lungo i margini da punzonature a occhio di dado e al centro da una stella a cinque punte incisa (43), fissa al colmo della calotta una applique in bronzo (rame?) dorato a forma di croce a sei bracci (una sorta di chrismon) con profili mistilinei e terminazioni fitomorfe a forma di tulipano(44), con al centro di ogni braccio una croce potenziata incisa.

Alla grande ricchezza decorativa dello scudo contribuiscono, insieme all’umbone, anche le lamine in bronzo dorato che si disponevano nell’ampio spazio del disco ligneo. Esse si compongono di cinque teste di cavallo (tre con il muso orientato verso sinistra, due col muso verso destra, disposti a coppie affrontate a guarnizione della calotta dell’umbone), una coppia di pavoni orientati specularmente con al centro un cantharos, che richiamano il mistero eucaristico, la risurrezione e la vita eterna, e una coppia di leoni anch’essi speculari, disposti ai lati di un guerriero appiedato (solitamente interpretato come Daniele tra i leoni), vestito con una lunga tunica e dei calzoni, armato di scudo al braccio sinistro, mentre con la destra stringe una croce astile su cui si posa una colomba; in vita è appesa alla cintura una spada pendente trasversalmente.

Lo schema compositivo del guerriero è noto e compare, ad esempio, sui bracci romboidali delle appliques cruciformi degli scudi da parata di Sovizzo e della tomba 5 di Trezzo d’Adda. Gli elementi figurativi delle lamine che ornavano il disco dello scudo ripropongono raffigurazioni religiose molto diffuse sin dall’età antica: i pavoni e il cantharos e il Daniele tra i leoni, cui si aggiungono le protomi equine che rimandano al mondo equestre, insieme alla mandibola equina rinvenuta nella sepoltura, probabilmente a simboleggiare lo status di cavaliere dell’inumato. Il motivo del cantharos tra pavoni è molto diffuso nel VI-VII secolo ad esempio su alcune lamine auree bizantine (brattee) di forma circolare, lavorate a sbalzo, di provenienza calabrese e albanese che presentano affinità tematiche e stilistiche con le ampolle di Monza e con le loro versioni più modeste in terracotta. Poiché la loro destinazione d’uso era, con ogni probabilità, l’inserimento in apposite capsule d’argento – le fibule “a  catoletta” – appare verosimile che come molti reliquiari anche questi si diffusero in Occidente al seguito di pellegrini, mercanti o profughi provenienti dalle regioni del Mediterraneo orientale(49). D’altronde, sulla scia della Sacra Scrittura, Gregorio Magno insegnava nei Moralia in Iob, commento al libro vetero testamentario di Giobbe, che il cristiano su questa terra è solo viator ac peregrinus(50), cioè in cammino verso la sua vera patria, quella celeste; inoltre il personaggio raffigurato più frequentemente su queste ampolle è San Mena, santo martire d’origine egiziana protettore dei pellegrini, solitamente raffigurato affiancato da due cammelli affrontati. Tra le brattee auree bizantine di cui sopra ne è nota una datata al VII secolo, proveniente dalla Calabria e conservata in stato frammentario ai Musei Statali di Berlino, che riporta San Mena tra due leoni, quasi a simboleggiare che, sebbene il viaggiatore sembri incarnare pienamente questo ideale di vita cristiana, il concetto stesso di viaggio implica pericolo, in quanto ci si aliena dal proprio ambiente naturale. Sulle ampolle dei pellegrini è molto diffusa anche l’iconografia di Daniele tra i leoni, a sottolineare la forza della fede di chi sceglieva di compiere un viaggio lungo e pericoloso come i pellegrinaggi oltremare. Entrambi i gruppi figurati, dunque, non sono privi di riferimenti al tema del viaggio. Bisogna tuttavia considerare che questi gruppi sono una ricostruzione, ottenuta mediante l’accostamento arbitrario di lamine slegate tra loro, che si basa sulla riconducibilità a motivi ampiamente attestati nel panorama cristiano-mediterraneo. Tuttavia su un’anforetta metallica di VI-VII secolo, decorata a rilievo, oggi a Berlino, vi sono due raffigurazioni: due uccelli raffigurati ai lati di un albero e due leoni ai lati di un cantharos. Inoltre pur accettando la ricostruzione con i leoni ai lati del guerriero, bisogna tener presente che, come dimostra la brattea con San Mena tra i Leoni, Daniele non è l’unico personaggio raffigurato tra i felini. Tra i leoni è raffigurato ad esempio uno dei padri della chiesa, il vescovo di Antiochia Ignazio, perché condannato da Traiano ad bestias; alla metà del VII secolo questo vescovo orientale era molto conosciuto in Italia, perché le sue ossa furono dapprima sepolte ad Antiochia e nel 637 traslate a Roma, a causa di un’incursione dei Saraceni. La sovrapposizione del defunto con l’immagine di Daniele comunque, seppure tutt’altro che scontata, resta l’ipotesi più verosimile. È molto significativo che entrambi i gruppi figurati compaiano sui due frammenti superstiti di un ambone proveniente da Novara, datato tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo, sul quale elementi figurativi paleocristiani o comunque tardo-antichi, convivono con figure antropomorfe di chiara ascendenza germanica. Le immagini sono racchiuse all’interno di uno schema figurativo diviso in riquadri da una cornice costituita da un tralcio vegetale con pampini e grappoli. Sul primo frammento compaiono due scene: la prima è frammentaria e presenta i pavoni attorno al cantharos; la seconda ritrae una figura barbuta con un martello nella mano destra, interpretato come la trasposizione in ambito cristiano delle caratteristiche iconografiche del dio Thor. Sul secondo frammento è presente Daniele tra i leoni e due scene parziali: la prima è costituita da una figura maschile di cui resta solo un braccio e un’arma lungo il fianco (forse uno scramasax); della seconda si intravedono solo le spire di alcuni serpenti. Un solo esemplare di scudo da parata è paragonabile per complessità e ricchezza decorativa a quello lucchese ed è quello rinvenuto a Stabio in Canton Ticino. Anch’esso ha lamine applicate al disco ligneo disposte in gruppi di due con elemento singolo al centro di una coppia affrontata. In questo caso l’iconografia è differente e richiama piuttosto il mondo della caccia: l’albero della vita tra due cavalieri armati di lancia e spada e un cantharos tra due cani retrospicienti mentre quattro elementi lanceolati erano posizionati a ridosso della tesa dell’umbone. I due scudi sono accomunati da una fattura tecnica molto accurata che ha fatto ipotizzare una stessa bottega di produzione e dalla volontà di comunicare un messaggio simbolico. Gli scudi da parata, difatti, contraddistinti dalla estesa superficie esposta su cui si dispiegava tutto l’apparato decorativo, erano un canale privilegiato di comunicazione di un messaggio simbolico o di precisi riferimenti politico-culturali dalla forte valenza ideologica, che potevano essere indirizzati al nemico che si affrontava in battaglia ma anche ai componenti della società di cui si faceva parte, soprattutto nel corso delle cerimonie, laiche e religiose, che scandivano la vita degli arimanni. Tali messaggi non sono interpretabili solo come la semplice manifestazione di uno status sociale acquisito, possono segnalare l’appartenenza ad un gruppo ristretto oppure possono essere riconducibili ad una radice più intima e profonda che affonda nella cultura tradizionale longobarda o nella cultura cattolico-romana. Nel periodo di massima diffusione essi presentano una grande standardizzazione di figurazioni formali: a differenza di quanto avviene, ad esempio, sugli scudi rinvenuti in Inghilterra che presentano un ricco e articolato repertorio di figurazioni su lamine dorate(55), in Italia gli scudi da parata delle ultime fasi tipologiche si limitano a pochi tipi diversi, con alcune varianti frutto di commistioni, riduzioni o imitazioni e forse anche fraintendimenti, tra cui spiccano notevolmente i due esempi di Lucca e di Stabio che sono accomunabili per fattura ma che risultano molto distanti tra loro proprio per il contenuto del messaggio: da una parte un richiamo al mondo nobiliare impegnato in attività venatorie (Stabio), dall’altra un insistito messaggio religioso (Lucca). Fra i reperti del corredo si è conservata, inoltre, una piccola croce enkolpion in oro, di circa 2 cm, con bracci tubolari lisci, espansi verso l’esterno e terminanti in cavità per l’alloggiamento di pietre preziose oggi perdute. Alla base della croce è presente un grumo di ossido di ferro, forse l’esito della corrosione del sistema di sospensione. L’asse verticale è più lungo di quello orizzontale: non si tratta però di una croce latina nel vero senso in quanto il braccio orizzontale incrocia quello verticale alla metà esatta della sua lunghezza. All’incrocio dei bracci vi è una cavità circolare per l’alloggiamento di una pietra preziosa, come quelle che chiudevano le terminazioni dei bracci che a volte serviva a sigillare una minuscola reliquia. Croci pettorali siffatte sono ben documentate in ambito bizantino tra VI e VII secolo, soprattutto in Asia Minore e Cipro, realizzate mediante una lamina ripiegata o in oro pieno, con una pietra al centro(56). Anche nel caso in questione poteva esserci una piccolissima reliquia, magari del corpo della santa cui è dedicata la chiesa, acquisita in occasione della traslazione delle sue reliquie. Vi sono diversi confronti: al Museo Benaki di Atene è conservata una matrice litica (vedi fig. 8) che serviva per la realizzazione di una croce pettorale identica a quella di Lucca, nonché orecchini a cestello e a corpo semilunato: erano tutti prodotti bizantini di VIVII secolo confezionati all’interno dello stesso opificio. Il rimando alla sfera religiosa in questo caso è comunque molto forte, sia che si tratti di una semplice croce pettorale e soprattutto che si tratti di un reliquiario. L’unico oggetto che rimanda ai riti funebri è il vaso di vetro, probabilmente una bottiglia del tipo apode, con corpo globulare e lungo collo cilindrico, che compare nelle tombe longobarde fin dalla prima generazione e costituisce una delle ultime offerte ad essere eliminata dai corredi, anche in contesti ecclesiastici(57).

Conclusioni

La prestigiosa sepoltura non era isolata, difatti alcune tombe indagate nel 1985 nell’area di Palazzo Lippi(58) testimoniano l’esistenza di una necropoli longobarda, attestata tra piazza del suffragio e via Sant’Anastasio(59), entro cui l’inumazione del dignitario lucchese va contestualizzata e analizzata. Il corredo parla per simboli che devono essere decodificati(60) poiché i dati materiali vengono interpretati come componenti simbolici e rituali tesi a sottolineare alcune caratteristiche che la società riteneva pertinenti all’inumato, quali l’età, il sesso, le condizioni e il luogo in cui avvenne morte. Questi elementi possono trovare espressione non solo nel corredo e nell’abbigliamento del defunto, ma anche nel dispendio di energia necessario per il rituale funerario, per la costruzione della sepoltura e per il trattamento del corpo. Tutti gli oggetti di corredo della sepoltura di Santa Giulia si distinguono nel panorama delle sepolture coeve per la peculiarità e la ricercatezza, nonché per la ricchezza espressa nella fattura e nell’impiego di materiali preziosi: la profusione dell’oro, il numero e le dimensioni delle crocette, la qualità della cintura, la presenza della croce enkolpion e la grandiosità dello scudo da parata con il suo manifesto programmatico espresso dalle appliques figurate, tutto concorre a qualificare questo ritrovamento come una delle scoperte più significative dell’archeologia funeraria di età longobarda, non solo di ambito toscano ma di tutto il territorio nazionale. Tutti gli indicatori a disposizione puntano concordemente verso i vertici della società longobarda della metà del VII secolo: il grande dispendio di energia impiegato nella realizzazione di questa sepoltura, nonché la sontuosità dei beni deposti, qualificano l’inumato come un esponente dell’alta aristocrazia longobarda, quasi certamente un vir magnificus, titolo che indicava colui il quale occupava un posto appena al di sotto del Duca(61) al quale spettava il titolo di vir gloriosissimus(62). L’uso di questi titoli e dignità espresse in forme romane, era invalso dall’età di re Agilulfo in avanti(63) nel tentativo di rendere riconoscibili i diversi gradi delle gerarchie longobarde alla popolazione e ai membri superstiti della sua classe dirigente, ricorrendo a titoli che erano utilizzati precedentemente per indicare i componenti della classe senatoria o personaggi di rango elevatissimo come consoli, patrizi, prefetti. Tale titolo non è esplicitato direttamente, come ad esempio nel caso della tomba 2 del sepolcreto nobiliare di Trezzo d’Adda, dove la titolatura romana è confermata dalla presenza di un anello sigillo con l’iscrizione +RODC/HIS VIL (Rodchisvirilluster)(64). Fa certamente riflettere la mancanza di un anello sigillo all’interno della sepoltura di Santa Giulia(65), nella quale la ricchezza del corredo è tale da indicare una personalità di spicco nella società longobarda, anche alla luce di alcune analogie con altre sepolture in cui si rinvenne tale manufatto, come la sepoltura scoperta in sant’Ambrogio a Milano con l’anello-sigillo di MARCHEBADUS(66) e soprattutto quelle del sepolcreto nobiliare di Trezzo d’Adda che non presenta un grado di ricchezza superiore alla sepoltura lucchese e dove sono presenti elementi comparabili con questa come la cintura in oro della tb. 1 o la particolare terminazione dell’applique centrale dell’umbone, a forma di tulipano, della tb. 4. Colpisce all’interno di questo prestigioso corredo, la presenza di elementi che rimandano a contesti cronologici differenti di almeno una generazione: da una parte c’è la cintura aurea la cui deposizione è prevalente nei ceti alti entro il primo trentennio del VII secolo, spesso in connessione a 5 crocette auree; dall’altra c’è lo scudo che presenta elementi che non compaiono prima del 640 d.C. come le punzonature a ‘S’, la stella incisa al centro della borchia, le appliques e la lamina che ricopre la tesa dell’umbone. Data l’incontrovertibile unità del corredo, è evidente che si è difronte ad un caso di attardamento della presenza degli elementi aurei, forse per l’attaccamento del defunto alle pratiche deposizionali della passata generazione o forse anche perché i beni in questione costituivano un’eredità prestigiosa. Se il corredo residuo di questo personaggio si contestualizza, dunque, solo rivolgendo l’attenzione alle alte sfere della società longobarda, il suo messaggio simbolico, di portata anche sociale e politica, è rivolto in qualche modo verso la sfera religiosa e rende evidente l’esistenza di correnti ideologiche diverse alle quali le élites aderiscono, anche alla luce del confronto con il rinvenimento di Stabio. Il rinvenimento lucchese ci consente di far luce sugli atteggiamenti delle élites, su quali culti religiosi promuovono e su come si comportano in merito alle reliquie. È evidente che i punti di riferimento di questo personaggio e del suo gruppo parentale sono altri: Bisanzio in primo luogo, come esempio di monarchia cattolica, e poi lo sguardo è certamente rivolto a Pavia dove si andava elaborando una nuova concezione di sovranità longobarda, sotto l’influenza di alcuni personaggi autorevoli a corte(67). È probabile che, in un momento ancora abbastanza precoce, l’attenzione dell’anonimo personaggio lucchese fosse rivolta verso quanto si stava definendo a corte in quel frangente storico. scarica PDF Cervo Vir Magnificus

NOTE

(1) Per tutte le informazioni relative alla scoperta cfr. ARRIGHI G. 1961 Una scoperta archeologica a Lucca un secolo fa, «Lucca. Rassegna del Comune», V, I, 1961, pp. 15-18; CIAMPOLTRINI G. 1983, Segnalazioni per l’archeologia d’età longobarda in Toscana, «Archeologia Medievale», X (1983). Del corredo si sono occupati in particolare: TOESCA P. 1907, Suppellettile barbarica nel Museo di Lucca, «Ausonia. Rivista della Società italiana di Archeologia e Storia dell’Arte», 1 (1907), p. 60-67; ÅBERG N. 1923, Die Goten und Langobarden in Italien, Uppsala, p. 162; FUCHS S. 1940, Figürliche Bronzebeschläge der Langobarden Zeit aus Italien, in «Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung», 55, pp. 100-113; ARRIGHI 1961,VON HESSEN O. 1971, Primo contributo all’archeologia longobarda in Toscana. Le necropoli, Firenze; MELUCCO VACCARO A. 1971, Mostra dei materiali della Tuscia Longobarda nelle raccolte pubbliche toscane, Catalogo della Mostra (Lucca, ottobre 1971), Firenze; DELOGU P. 1974, Sulla datazione di alcuni oggetti in metallo prezioso dei sepolcreti longobardi in Italia, in La civiltà dei Longobardi in Europa, Atti del Convegno Internazionale. Roma 24- 26 maggio 1971. Cividale del Friuli, 27-28 maggio 1971, Roma, pp. 165-166, tav. VII, fig. 1;VON HESSEN O. 1975, Secondo contributo all’archeologia longobarda in Toscana.Reperti isolati e di provenienza incerta, Firenze; CIAMPOLTRINI 1983; LA ROCCA C. 2000, La società longobarda tra VII e VIII secolo, in Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, Catalogo della mostra a cura di C. Bertelli – G. P. Brogiolo (Brescia 2000), Milano, pp. 31-103; GIOSTRA C. 2008, Gli scudi da parata da Lucca (Italia) e da Stabio (Svizzera), in Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, gennaio-luglio 2008), Milano, pp. 394-397; CIAMPOLTRINI G. 2011, La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico, Lucca. (2) cfr. L’utile, giornale scientifico artistico industriale e morale, anno I, 28 febbraio 1859; ARRIGHI 1961. (3) ARCHIVIO DEL COMUNE DI LUCCA, Protocolli 1859, fasc. 688; ARRIGHI 1961, p. 18. (4) I documenti d’archivio riportano: “Cassetta n°1. Numero ventuno pezzi di oro che formavano una guarnizione otto dei quali doppi cioè col dietro di lamina e gli altri con i perni per passanti. Numero cinque croci greche di lamina d’oro, dico cinque. Una crocina con ossido di ferro al suo gambo e mancante delle pietre. Una fibbia di metallo dorato in due pezzi. Tutto questo oro pesa circa once cinque. Cassetta n°2. Vari pezzi di metallo dorato ma ossidati che rappresentano una figuretta a guerriero, due pavoni, due leoni, cinque teste di cavallo e un arabesco ovato e quattro chiodini con teste dorate. Cassetta n°3. Vari pezzi di ferro ossidato ed un cappelletto pure di ferro che doveva essere nel centro di uno scudo, pezzi di vetro, un lumino di terracotta, una moneta designata di Tiberio Claudio” (cfr. CAMPETTI 1909, Catalogo della Pinacoteca Comunale di Lucca, Lucca, p. 74; cfr. ARRIGHI 1961, p. 17). (5) TOESCA 1907, p. 60-67. (6) ARRIGHI 1961. (7) 1° centenario dell’unità d’Italia. Catalogo dell’esposizione di documenti e cimeli risorgimentali, «La provincia di Lucca», Anno I – Supplemento al N.2 (aprile-giugno 1961). (8) Tale posizione era molto ambita in quanto lo spazio antistante la facciata era consacrato dal passaggio del clero e dei fedeli, inoltre, essendo un luogo accessibile a tutti era ideale per attirare l’attenzione dei fedeli e le loro preghiere per la salvezza dell’anima del defunto. Gregorio Magno, difatti, sulla base di quanto diceva Sant’Agostino, sosteneva che la salvezza dell’anima era legata proprio alle orazioni dei fedeli, per cui la sepoltura in chiesa era utile indirettamente all’anima del defunto, perché preservandone il ricordo, avrebbe incitato i fedeli alla preghiera. Gregorio di Tours ed il re franco Pipino scelsero di essere deposti anch’essi ante portam, però in segno di umiltà, in quanto in questa posizione le loro tombe sarebbero state calpestate da tutti. In altri casi tale posizione privilegiata poteva essere concessa come premio per una morte gloriosa, come l’episodio del diacono Senone, che dopo aver dato la vita per difendere il re Cuniperto nel corso delle lotte col duca Alachi, venne sepolto davanti all’ingresso della chiesa di San Giovanni Domnarum, fondata dalla regina Gundiperga all’interno della città di Pavia (cfr. CHAVARRÌA ARNAU A. 2009, Archeologia delle chiese. Dalle origini all’anno mille, Roma, pp. 179-181; LUSUARDI SIENA S. – GIOSTRA C. – SPALLA E. 2001, Sepolture e luoghi di culto in età longobarda: il modello regio, in BROGIOLO G. P. 2001 (a cura di), II Congresso nazionale di archeologia medievale (Brescia, 28 settembre- 1 ottobre 2000), Firenze, pp. 273-283. (9) La tendenza a seppellire in chiesa, secondo un modello di ispirazione regia, è da inquadrare a partire dal 3°, 4° decennio del VII secolo (cfr. LUSUARDI SIENA – GIOSTRA – SPALLA 2001). (10) Quest’ultimo dato troverebbe conferma nella possibilità, avanzata da G. Ciampoltrini che “l’alabarda” ricordata tra gli oggetti del corredo ma non conservata, non fosse una cuspide di lancia ma un harpago, vale a dire un arma inastata utilizzata in questo frangente storico nei combattimenti navali e di cui sono attestati solo due esemplari provenienti da Castel Trosino (AP) e da Pisa (cfr. CIAMPOLTRINI 1983, p. 518). (11) CHAVARRÌA ARNAU 2009, p. 34. (12) Cfr. BERGAMASCHI G. 2006, S. Giulia a Lucca: la chiesa e il culto della santa, «Nuova rivista storica», 90 (2006), pp. 763-782; BETTELLI M. – BERGAMASCHI G. 2009, “Felix Gorgona… feliciortamen Brixia”: la traslazione di santa Giulia, in ALZATI C. – ROSSETTI G. 2009 (a cura di) Profili istituzionali della santità medievale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana Occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, Pisa, pp. 143-204. (13) CIAMPOLTRINI 1983; BELLI BARSALI I. 1973, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI, in Lucca e Tuscia nell’Alto Medioevo, Atti del V Congresso Internazionale di studio sull’Alto Medioevo (Lucca, 3-7 ottobre 1971), Spoleto, pp. 461-554. (14) Un’accurata descrizione della chiesa in MOROLLI G. 2002 (a cura di) Basiliche medioevali della città di Lucca. La guida inedita di Enrico Ridolfi (1828-1909), pp. 321-326. (15) Cfr. BARSOCCHINI D. 1971, Memorie e documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, V, 2, Lucca 1971, ristampa anastatica di Lucca 1837, doc. n. 1043, a. 900, p. 643. (16) Il nome della casata deriva da un Alluccio, diminutivo di Allone, forse lo stesso Allone, duca di stirpe longobarda ricordato a Lucca negli anni 774-785 e noto fra l’altro per il “monasterium in Luca quod Allo dux aedificavit”, citato in diversi documenti del cenobio bresciano di S. Salvatore – S. Giulia, e identificabile nel monastero lucchese di S. Salvatore “in Brisciano”, poi di S. Giustina. Tale famiglia aveva un canale preferenziale di affermazione sociale fra le alte gerarchie ecclesiastiche, annoverando tra le proprie fila vescovi, cardinali ed anche un papa, Lucio III (Ubaldo Allucingoli). Cfr. GASPARRI S. 1978, I duchi longobardi (Istituto Storico Italiano per il Medioevo. Studi Storici 109), Roma, pp. 48-49; PESCAGLINI MONTI R. 1991, Nobiltà e istituzioni ecclesiastiche in Valdinievole tra XI e XII secolo, in VIOLANTE C. 1991, a cura di, Allucio da Pescia. Un santo laico dell’età postgregoriana. Religione e società nei territori di Lucca e della Valdinievole. (Atti del convegno, Pescia 18-19 aprile1985), Roma, p. 267. (17) Cfr. BARSOCCHINI1971, tomo V, parte 3, documento 1398; BINI T. 1858, Notizie della chiesa e del Crocifisso di Santa Giulia di Lucca, Lucca, p. 7; MOROLLI G. 2002, Basiliche medievali della città di Lucca. La guida inedita di Enrico Ridolfi (1828-1909), Lucca, p.321; BELLI BARSALI I. 1970, Guida di Lucca, Lucca, p. 129-130. Sul rapporto fra edifici sacri e tombe dei fondatori cfr. anche SENNHAUSERH. R. 2001, Problemi riguardanti le chiese dei secoli VII e VIII sul territorio della Svizzera, in BROGIOLO G. P. 2001 (a cura di), Le chiese rurali tra VII e VIII sec. in Italia settentrionale. 8° Seminario sul tardo antico e l’alto Medioevo in Italia settentrionale (Garda, 8-10 aprile 2000), Mantova, pp. 185-186; BROGIOLO G. P. 2005, La chiesa di San Zeno di Campione e la sua sequenza stratigrafica, in GASPARRI S. – LA ROCCA C. 2005 (a cura di), Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-877), Roma, p. 99. (18) Cfr. BINI 1858, pp. 6-7, 63-64; MOROLLI G. 2002, Basiliche medievali della città di Lucca. La guida inedita di Enrico Ridolfi (1828-1909), Lucca, p.321. (19) Segno che i Longobardi seguirono dinamiche insediative comuni in entrambe le città. Su Brescia cfr. BROGIOLO G. P. 1993, Brescia altomedievale: urbanistica ed edilizia dal IV al IX secolo; BROGIOLO G. P. 2005, Dalle domus alla corte regia. S. Giulia di Brescia. Gli scavi dal 1980 al 1992, Firenze. (20) La realizzazione di un edificio sacro necessitava delle adeguate autorizzazioni da parte delle autorità ecclesiastiche chiamate a vigilare su tale fenomeno, a consacrare l’edificio e a nominarne il clero, ma necessitava anche di risorse economiche sufficienti a garantirne la sussistenza nel tempo. Per le reliquie poi, è possibile immaginare che solo le alte sfere della società longobarda avessero la possibilità di acquisirle o traslarle in edifici di nuova costruzione in modo da attirare l’attenzione dei fedeli (cfr. BROGIOLO G. P. 2007, Archeologia e società tra tardo antico e alto medioevo, in BROGIOLO G.P. – CHAVARRÌA ARNAU A. (a cura di) 2007, Archeologia e società tra tardo antico e alto medioevo, Mantova, pp. 17-18; cfr. CHAVARRÌA ARNAU2009, p. 41). (21) LUSUARDI SIENA S. 2004 (a cura di), I Signori degli Anelli. Un aggiornamento sugli anelli-sigillo longobardi, Milano, p.125. (22) LA ROCCA C. 2004, Tombe con corredi di armi, etnicità e prestigio sociale, in I Longobardi e la guerra. Da Alboino alla battaglia sulla Livenza (secc. VI-VIII), Atti del Convegno Guerra e Società nell’Italia longobarda, Viella, 2004, p.56. (23) Molti sono i casi in cui la struttura tombale veniva chiusa da una lastra monolitica di riuso, eventualmente affiancata da un’altra lastra o da laterizi che consentivano di sigillarne l’interno, un caso per tutti: Trezzo tb. 5. (Cfr. ROFFIA E. 1986, La necropoli di Trezzo sull’Adda, Firenze, pp. 83-100). (24) Cfr. in proposito: VON HESSEN O. 1968, Die Goldbleschcheibenaus Feldkirchen und verwandte Funde. Beobachtungenzulangobardischen Bestaattungssiten, «Bayerische Vorgeschichtsblätter» 33, pp. 110-116; VON HESSEN O. 1975b, Ancora sulle crocette in lamina d’oro, «Numismatica e Antichità Classiche. Quaderni Ticinesi», IV, pp. 283-293; GIOSTRA C. 2010, Le croci in lamina d’oro: origine, significato e funzione, in SANNAZARO M – GIOSTRA C. 2010 (a cura di), Petala aurea. Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla collezione Rovati, p. 129; AHUMADA SILVA I. 2012, Oreficeria longobarda a Cividale. Croci auree, Udine, pp. 11-12. (25) Con l’espressione “scudi da parata” (prunkschild), introdotta nel 1923 dall’ berg (cfr. ÅBERG 1923), si definisce una particolare produzione di scudi che presenta caratteri di eccellenza, sia per la preziosità dei materiali impiegati sia per la profusione di elementi figurati o decorativi che vi compaiono e che la rendono elitaria e vistosamente differente dalla normale produzione militare di scudi. (26) Le crocette auree lisce o decorate da punzonature sono diffuse maggiormente nell’Italia centrale e meridionale, mentre in Italia settentrionale sono prevalenti quelle decorate a impressione su modano (cfr. FUCHS S. 1938, Die langobardischen Goldblattkreuzeausder Zone südwärtsder Alpen, Berlino, p.16; ROTH H. 1973, Die OrnamentikderLangobarden in Italien: eine Untersuchungzur Stilentwicklunganhandder Grabfunde, Bonn, p. 296; LUSUARDI SIENA S .– GIOSTRA C., 2003, L’artigianato metallurgico longobardo attraverso la documentazione materiale: dall’analisi formale all’organizzazione produttiva, in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Atti del XVI Congresso Internazionale di Studi sull’Altomedioevo, Spoleto, 20-22 ottobre – Benevento, 24-27 ottobre, Spoleto, pp. 919-920, tav. IX, fig. 2; AHUMADA SILVA 2012, p. 10). (27) Sulla base di un elevato numero di analisi effettuate sulle oreficerie longobarde provenienti dalle necropoli di Castel Trosino (AP) e di Nocera Umbra (PG), si è accertato che per le crocette auree veniva usata una lega d’oro al alto titolo; tale scelta da parte degli orafi, scaturiva dalla necessità di disporre di un manufatto estremamente duttile e plastico (cfr. AHUMADA SILVA 2012, p. 14) ma d’altro canto il ricorso a questo tipo di lega comportava anche un dispendio economico maggiore. (28) GIOSTRA 2007, pp. 324-328; GIOSTRA 2010, pp. 133, 135. (29) Ad esempio cinque crocette auree dovevano ornare il velo funebre del defunto della tb. 1 di Trezzo d’Adda, anche se ne restano solo due, in connessione con una cintura in oro, fili d’oro riferibili al broccato della veste e un anelloaureo con gemma romana di riuso, probabilmente con fini sigillari (ROFFIA 1986, pp. 11- 25; LUSUARDI SIENA S. – GIOSTRA C. 2012, L’aristocrazia longobarda nel territorio di Trezzo sull’Adda: alcune considerazioni finali, in LUSUARDI SIENA S. – GIOSTRA C. (a cura di) 2012, Archeologia medievale a Trezzo sull’Adda. Il sepolcreto longobardo e l’oratorio di San Martino. Le chiese di Santo Stefano e San Michele in Sallianense, Milano, pp. 635- 644). Cinque croci auree e una cintura per la sospensione delle armi aurea, erano pertinenti anche alla sepoltura del cosiddetto ‘longobardo d’oro’, rinvenuto a Chiusi sull’altura dell’Arcisa all’interno di un edificio religioso, con un ricco corredo comprendente anche un anello aureo con gemma romana di riuso, come nel caso di Trezzo (PAZIENZA A. 2006, I Longobardi nella Chiusi di Porsenna. Nuove fonti per la necropoli dell’Arcisa, «Archeologia Medievale», XXXIII, pp. 61-78; PAOLUCCI G. 2009, Il ‘Longobardo d’oro’ dell’Arcisa: un ritrovamento eccezionale e un giallo archeologico, in FALLUOMINI C. 2009, Goti e Longobardi a Chiusi, Chiusi, pp. 169-193; LUSUARDI SIENA – GIOSTRA 2012, pp. 637-642). A Cividale del Friuli nel 1751 furono scoperti tre sarcofagi contenenti degli inumati con ricco corredo: due di questi erano dotato di cinque crocette auree ciascuno (cfr. DEL TORRE L. 1752, Lettera intorno alcune antichità cristiane scopertesi nelle città del Friuli, in CALOGERI A. 1752, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, tomo 47, Venezia, pp. 1-63; AHUMADA SILVA 2012, pp. 19-20). Ancora cinque crocette auree provengono dalla tb. 3 di via Monte Suello 2 a Verona, deposte in connessione con una cintura aurea, una perla magica e uno umbone di scudo in ferro (cfr. LA ROCCA 2000, pp. 87-88, tav. 48). (30) Le cinture auree rinvenute in Italia non sono molte. Si segnalano in particolare: Trezzo tb. 1 (ROFFIA 1986), Ragogna (LUSUARDI SIENA S. – GIOSTRA C. 2005, Una sepoltura privilegiata longobarda nella chiesa di San Pietro “de castro Reunia” (Ragogna, Udine), in GELICHI S. (a cura di), L’Italia alto-medievale tra archeologia e storia. Studi in ricordo di Ottone D’Assia, pp. 187-204), Nocera Umbra tb. 1 (RUPP C. 2006, Das langobardische Gräberfeld von Nocera Umbra. 1. Katalog und Tafeln, Firenze), Colognola a Piano (DE MARCHI P. M. 1995, Modelli insediativi “militarizzati” d’età longobarda in Lombardia, in BROGIOLO G. P. (a cura di), Città, castelli, campagne nei territori di frontiera (secoli VI-VII): 5°Seminario sul tardoantico e l’altomedioevo in Italia centro-settentrionale, Monte Barro – Galbiate (Lecco), 9-10 giugno 1994, pp.33-85), Chiusi-Arcisa (PAOLUCCI 2009), Castel Trosino tb. F, tb. 9, tb. 90 (PAROLI L. – RICCI M. 2007, La necropoli altomedievale di Castel Trosino, Firenze), Cividale Santo Stefano in pertica tb. 1 e Cividale tb. Gisulfo (AHUMADA SILVA I. 2001, Necropoli longobarde a Cividale e in Friuli, in Atti del XIV Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo “Paolo Diacono e il Friuli altomedievale (secc. VI-X)” (Cividale del Friuli 1999), Spoleto, pp. 321-356). (31) Cfr. nota 10. (32) Cfr. in proposito URECH E. 1995, Dizionario dei simboli cristiani, Roma, p. 87. (33) Vedi oltre. (34) Ad esempio le sepolture di Chiusi-Arcisa e della tb.1 di Trezzo d’Adda, entrambe con 5 crocette auree e cintura aurea, si inquadrano cronologicamente tra fine VI – inizi VII secolo, per quanto riguarda Chiusi (LUSUARDI SIENA -GIOSTRA 2012, p. 638), e il primo ventennio del VII secolo, per quanto riguarda Trezzo (GIOSTRA C. 2007, Luoghi e segni della morte in età longobarda: tradizione e transizione nelle pratiche dell’aristocrazia, in BROGIOLO – CHIAVARRÌA ARNAU2007, pp. 311-344). (35) A proposito della cosiddetta ’età dell’oro’, a cavallo tra i secolo VI e VIIcfr. DE MARCHI 2004, Il problema degli anelli in oro longobardi sigillari, in LUSUARDI SIENA 2004, p.58), che collega il fenomeno ai contatti col mondo bizantino da parte delle élites longobarde che godevano di un elevato potere economico; GIOSTRAC. 2004, Tre ‘nuovi’ anelli-sigillo aurei longobardi, in I Signori degli anelli, p. 91, n.6; soprattutto cfr. GIOSTRA 2007, sul problema della comparsa/scomparsa diacronica dei diversi manufatti all’interno delle sepolture. (36) Cfr. CERVO S. 2009/10, Classificazione morfo-tipologica degli scudi “da parata” longobardi, tesi di specializzazione, a.a. 2009-2010. Si vedano i casi di: Borgo d’Ale – Cappella di S. Germano (cfr. DE MARCHI P. M. 2002, Gliscudi da parata longobardi in Lombardia. Luoghi e centri di potere, in BAJ P. (a cura di), Studi in memoria di Carlo Mastorgio, Gavirate, pp. 61-84); Cividale tb. Gisulfo (cfr. BROZZI M. 1980, La tomba di Gisulfo: ma vi era proprio sepolto il primo duca longobardo del Friuli?in «Numismatica e Antichità classica. Quaderni ticinesi», IX, pp. 325-338); San Salvatore di Maiano (cfr. LOPREATO P. 1995, La necropoli longobarda di San Salvatore di Maiano. Revisione critica,«Forum Iulii», XIX, pp. 17- 41); Trezzo d’Adda tb. 2 (cfr. ROFFIA 1986); Stabio (cfr. LA ROCCA 2000, p. 45); Boffalora d’Adda (cfr. DEMARCHI P. M. 1986, Il ritrovamento di Boffalora d’Adda (Milano), in Nuovi contributi agli studi longobardi in Lombardia, Atti del Convegno (Arsago Seprio, 29 settembre 1984), Busto Arsizio, pp. 21-34). (37) La punzonatura a ‘S’ compare tardi sugli scudi da parata, difatti essa si riscontra solo su lamine e borchie relative a umboni decorati da appliques centrali a crociera (cfr. CERVO 2009/10) che a loro volta non sono anteriore al secondo ventennio del VII secolo (cfr. GIOSTRA C. 2006, Dalla triquetra alla croce. Ipotesi di lavoro sul problema della cultura tradizionale longobarda, in San Benedetto “ad Leones”. Un monastero benedettino in terra longobarda, a cura di BARONIO A., in «Brixia Sacra» XI (2006), pp. 83-100). Gli scudi rinvenuti in Italia che presentano questo nuovo tipo di punzonaturasono:Boffalora d’Adda (CR) tb. 1 e tb. 2 (DEMARCHI 1986);Borgo d’Ale (VC), in località cappella San Germano, tb1 e tb. 2 (DE MARCHI 2002); Brescia – San Bartolomeo (DE MARCHI 2002); Cava Manara (PV), (DE MARCHI 2002); Fornovo San Giovanni (BG), (DE MARCHI 2002); Pisa -piazza dei Miracoli (MELUCCO VACCARO A. 1982, I Longobardi in Italia. Materiali e problemi, Milano);Porpetto (UD) 1 e 2 (ARIIS L. 1993, Gli umboni longobardi di Porpetto, in «Quaderni Friulani di Archeologia», III, pp. 129-138), Trezzo (MI) tbb. 2, 3, 5, (ROFFIA 1986); Vicenne (CB) tb. 16 (CEGLIA V. 2000, Tomba di cavaliere 16 della necropoli di Campochiaro, località Vicenne, in Il futuro dei Longobardi, pp. 74-81).Punzonature a ‘S’ compaiono anche su quattro rinvenimenti di borchie isolate provenienti da: Castellarano (RE), (DE MARCHI P. M. 2000, Note su produzione e scambi nella Lombardia di età longobarda: l’esempio degli scudi da parata, in Atti del II Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Brescia, Musei Civici – chiesa di Santa Giulia, 28 settembre – 1 ottobre 2000), Firenze, pp. 284-291); Mombello Monferrato (AL) tb. 8 (GIOSTRA C. 2007b, Aspetti del rituale funerario, in MICHELETTO E. 2007, a cura di, Longobardi in Monferrato. Archeologia della “Iudiciaria Torrensis”, Casale Monferrato, pp. 99-128);Vittorio Veneto (TV), (RIGONI M. – POSSENTI E. 1999, a cura di Il tempo del Longobardi. Materiali di epoca longobarda nel Trevigiano, Padova); Cividale (UD) piazza Resistenza (AHUMADA SILVA 2001). (38) L’uso di iscrizioni beneaguranti su oggetti è attestata in tutto il mondo germanico, sebbene sia legato solitamente ad altri manufatti quali puntalini e placchette di cinture. Si tratta comunque di un fenomeno non molto frequente. (39) Il ricorso a salmi, incisi soprattutto su guarnizioni e puntali di cinture, è diffuso ad esempio oltralpe in area alemanna: sul puntale principale di una cintura rinvenuta a Biessenhofen-Ebenhofen, Lkr. Ostallgäu, nella tb. 21, è riportata un’espressione tratta dal salmo 69: “+DEUS IN ADIUTATIUM TUO INIEN+”; sulla guarnizione di cintura proveniente dalla tb. 3 di Weilstetten è citato il verso 11 del salmo 90: “(AN)GELIS SUIS MANDAVIT DE TE UT COSTOTIAM TEI OMIBOS VI (OS)”. Meritano rilievo particolare invece le fibbie a placca rettangolare burgunde con iscrizione, che presentano figurazioni a soggetto biblico tra le quali compare frequentemente Daniele tra i leonia testimonianza della forza di questo elemento iconografico (cfr. TREFFORT C. 2002, Vertusprophylactiques et senseschatologique d’un dépôtfunéraire du haut Moyen Age: lesplaquesbouclesrectangulairesburgondes à inscription, «ArchéologieMédiévale», XXXII, pp. 31-53). (40) Sul tema dell’acculturazione fra Latini e barbari cfr. VON HESSEN O. 1990, Il processo di Romanizzazione, in MENIS G.C. 1990, I Longobardi, Milano, pp. 222-234; HAGERMANN D. – HAUBRICHS W. – JARNUT J. 2004 (a cura di), Akkulturation. Problemeeinergermanisch-romanischen Kultursynthese in Spätantike und frühem Mittelalter, Berlin-New York. La visione tradizionale, secondo cui i barbari, una volta installatisi nei territori imperiali, avrebbero progressivamente assunto tratti culturali propri dei Romani con cui vivevano a contatto (cfr. BIERBRAUER V. 1980, Frühgeschichtliche Akkulturationprozesse in dengermanischen Staatenam Mittelmeer (Westgoten, Ostgoten, Langobarden) ausderSichtdesArchäologen, in Longobardi e Lombardia. Aspetti di civiltà longobarda. Atti del 60 congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo, Milano, 21-25 ottobre 1978, I, Spoleto, pp. 89-105; BIERBRAUER V. 1984, Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e Longobardi, in Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano, pp. 455-508) è stata fatta oggetto di alcune osservazioni critiche relativamente ai diversi aspetti del problema che hanno contribuito a inquadrare meglio la questione sotto i diversi punti di vista. In generale cfr. BROGIOLO G.P. – POSSENTI E. 2004, Distinzione e processi di acculturazione nell’Italia settentrionale dei primi secoli del Medioevo, in HAGERMANN – HAUBRICHS – JARNUT 2004, pp. 257-273; sul rapporto dei Longobardi con la scrittura cfr. DELOGU P. 1973, I Longobardi e la scrittura, in Studi Storici in onore di Ottorino Bertolini, Pisa, pp. 313-324; sulla coesistenza di romani e germani all’interno di una stessa necropoli cfr. PAROLI L. 2005, La necropoli di Castel Trosino: un riesame critico, in PAROLI L. (a cura di) 2005, La necropoli altomedievale di Castel Trosino. Bizantini e Longobardi nelle Marche. Catalogo della mostra (Ascoli Piceno, Museo Archeologico Statale, 1 luglio- 31 ottobre 1995), Cinisello Balsamo 1995, pp. 199-200; dal punto di vista legislativo, sull’editto di Rotari e sul suo complesso rapporto con la società del tempo cfr. DELOGU P. 2010, L’editto di Rotari e la società del VII secolo, in DELOGU P. 2010, Le origini del Medioevo. Studi sul settimo secolo, Roma, pp.147-172; sull’ibridazione legislativa compiuta con l’editto di Rotari cfr. GASPARRI S. 2012, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Bari, pp. 27-35; sui caratteri e gli effetti delle influenze esercitate, a tutti i livelli, dagli immigrati sugli autoctoni nell’Occidente altomedievale (una sorta di ‘acculturazione inversa’ subita dai Romani che avrebbe portato all’abbandono delle evolute tecniche edilizie del mondo classico e ad un analfabetismo ben più diffuso che nei secoli dell’Impero) cfr. WARD-PERKINS B. 2005, The Fall of Rome and the Fall of Civilization, Oxford, pp. 87-168. (41) Ad esempio il puntalino di cintura della tb. 17 di Collegno, sul quale è presente un’iscrizione continua solo parzialmente leggibile: + [D]OMINE … [M]AGISTER (cfr. GIOSTRA 2004, p.124). (42) Ad esempio: su un puntale di cintura proveniente da Gazzola (PC) è presente una scorretta sequenza di segni a imitazione dei caratteri dell’alfabeto latino (cfr. CATARSI DALL’AGLIO M. 1993 (a cura di), I Longobardi in Emilia occidentale, catalogo della mostra, Parma, pp. 71-72); sul retro di tre puntalini provenienti da Testona (TO) c’è un’iscrizione che sembra riproporre un modello senza una piena consapevolezza da parte di artigiano e committente (cfr. GIOSTRA 2007, pp. 332-334); su un tavellone proveniente da Ripalta Arpina – località S. Eusebio (CR) c’è incisa l’iscrizione “gaRIPa / LDUS / ABCD / EFGH (cfr. FIORILLA S. 1983, Laterizi altomedievali al Museo di Crema, «Insula Fulcheria», XIII, pp. 54- 58). Tra i casi noti in Italia di iscrizioni su manufatti, oltre a quelli già citati sono da includere anche le due falere in oro, argento e bronzo proveniente dalla tb. 4 di via Mazzini a Reggio Emilia (cfr. GELICHI S. 1989, Schede di archeologia longobarda in Italia. L’Emilia Romagna, «Studi Medievali», ser. III, XXX, pp.414-415). Ad un uso della scrittura fortemente simbolico e decorativo sembra rimandare anche l’anello-sigillo di AUTO (cfr. LUSUARDI SIENA 2004, pp. 118-119). (43) La borchia con stella incisa al colmo della calotta ha solo quattro confronti in tutto il territorio nazionale: uno scudo proveniente da Volta Bresciana (BS), deposto in connessione con una cintura ageminata non anteriore alla metà del VII secolo; quattro borchie relative all’imbracciatura di uno scudo proveniente da una sepoltura rinvenuta in Piazza Resistenza a Cividale (UD), in connessione ad un puntale di cintura in bronzo datato alla Metà del VII secolo; uno scudo proveniente dalla necropoli di Barriera Nizza a Torino, il cui contesto non è anteriore al 640 d.C.; lo scudo della tb. 8 della necropoli di Mombello Monferrato (AL), datato dal 630 d.C. in poi. In particolare quest’ultimo presenta degli elementi di vicinanza col caso di Lucca, perché la borchia è pressoché identica e la sepoltura è connessa ad un edificio sacro, un oratorio funebre di cui l’inumato potrebbe essere stato il fondatore (cfr. CERVO 2009/10). (44) Questo tipo di terminazione a tulipano è attestata nel territorio italiano, oltre allo scudo lucchese, solo in altri tre casi: il primo è quella dello scudo rinvenuto a Borgo d’Ale (VC), in località cappella San Germano, datato alla metà del VII secolo, che oltre alle terminazioni della crociera ha altri punti di contatto col nostro, in quanto il campo dello scudo era decorato da un’applique a forme di croce sormontata da una colomba e la sepoltura era connessa ad un edificio sacro; il secondo è quella di uno scudo rinvenuto a San Salvatore di Maiano (UD), datato alla metà del VII secolo; il terzo è fissata sullo scudo rinvenuto a Cividale (UD) nella tomba del cosiddetto “duca Gisulfo”, datato a poco dopo la metà del VII secolo (cfr. CERVO 2009/10). (45) La lamina del ‘guerriero di Lucca’ (vedi fig. 7) è ritagliata in modo da delineare la sagoma di una figura umana (oggi acefala) con i particolari interni resi mediante linee incise e mediante punzonature a cerchielli, a occhio di dado, a triangolini puntinati contrapposti e a ‘S’ impresse sempre partendo dall’alto verso il basso, difatti nei casi ove si sovrappongono due punzonature quella inferiore è sempre posteriore in quanto mutila quella superiore. (46) Cfr. CORRADO M. 2003, Note sul problema delle lamine bratteate altomedievali dal sud Italia, in III Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Castello di Salerno, Complesso di Santa Sofia, 2-5 ottobre 2003), Firenze, pp. 112-113. (47) Contenenti l’olio dei Luoghi Santi e decorate con scene neotestamentarie, le ampolle furono inviate da Gregorio Magno (590-604) alla regina Teodolinda in occasione del battesimo di Adaloaldo. (48) ASCANI V. 1991, s.v. Ampolla, in EAM, I, Roma, pp. 524-526; CORRADO 2003, p. 113. (49) Cfr. CUTERI F.A. 2002, Bottega bizantina. V. Medaglione raffigurante Pavoni che bevono a un vaso, in LEONE G. (a cura di) 2002, Pange Lingua. L’Eucaristia in Calabria. Storia Devozione Arte, Catanzaro, pp. 280; CORRADO 2003, p. 113. (50) GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, Libro 18, XXX, 48. Peregrini sunt in mundo electiomnes (cfr. GEREMEK B. 1987, L’emarginato, in LE GOFF J. 1987 (a cura di), L’uomo medievale, p. 394-395). (51) A tal proposito una delle raffigurazioni più diffuse, insieme a quelle già prese in esame, è l’Adorazione dei Magi, difatti iMagi sono l’archetipo del pellegrino diretto ai Luoghi Santi (cfr. VIKAN G. 1991, s.v. Amuleto, in EAM, I, pp. 527-533; CORRADO 2003, p. 110). (52) Personaggio con clamide e nimbo, identificato con S. Mena, affiancato da due leoni, entro una cornice puntinata (cfr. ROTILI 1980, La cultura artistica bizantina in Calabria e in Basilicata, Cava dei Tirreni p. 186, tav. LXXXIIb; CORRADO 2003, pp. 112-113; PANNUTI 2011, Le lamine auree bizantine dalla Calabria, in BALDINI LIPPOLIS I., MORELLI A. L. 2011 (a cura di), Oggetti-simbolo: produzione, uso e significato nel mondo antico, Bologna, p. 339, fig. 2). (53) D’ONOFRIO M. 1999 (a cura di), Romei e giubilei. Il pellegrinaggio medievale e San Pietro (350-1350), Milano, pp. 320, 322, nn. 64, 67. 54) Cfr. GIOSTRA C. 2007b, scheda 1.2.11 Frammento di ambone da Novara, inI Longobardi. Dalla caduta dell’Impero all’alba dell’Italia 2007, Catalogo della mostra a cura di G. P. BROGIOLO – A. CHAVARRÌA ARNAU, (Torino, Palazzo Bricherasio, 28/09-06/01/2008. Novalesa, Abbazia dei Santi Pietro e Andrea, 30/09-09/12/2007), Milano, pp. 75-76; IBSEN M. 2007, scheda 6.8 Frammento di Ambone, in I Longobardi. Dalla caduta dell’Impero all’alba dell’Italia, pp. 319- 320. (55) Cfr. in proposito DICKINSON T. M. 2005, Symbols of protection: The Significance of Animal-ornamented Shield in Early Anglo-Saxon England, «Medieval Archaeology», XLIX, London, pp. 109-163). (56) BALDINI LIPPOLIS I. 1999, L’oreficeria nell’impero di Costantinopoli tra IV e VII secolo, Bari, pp. 128, 148-149; GIOSTRA 2010, Scheda n.33, p. 208. (57) GIOSTRA 2007, pp. 334-335. (58) CIAMPOLTRINI 2011, p. 63. (59) Il culto di Sant’Anastasio si diffonde in età liutprandea. (60) Per il problema della lettura e dell’interpretazione dei corredi si veda: BROGIOLO – CHIAVARRÌA ARNAU 2007. (61) CIAMPOLTRINI G. 2011, La città di San Frediano. Lucca tra VI e VII secolo: un itinerario archeologico, Lucca, p. 67. (62) Fino al IV secolo ogni senatore era indicato col titolo di vir clarissimus. Con l’allargamento della classe senatoria furono introdotti i titoli di vir spectabilis e vir illustris per distinguere i senatori di alto rango, compreso il magister militum. All’epoca di Giustiniano I però i senatori erano definiti tutti viri illustri, tanto che il titolo di illustris aveva subito una svalutazione simile a quella di clarissimus nel IV secolo, e gli alti ufficiali erano ora indicati con i titoli virgloriosus o gloriosissimus e vir magnificus (cfr.BERGER A. 1915, “Illustris”, «Realencyclopädieder Classischen Altertumswissenschaft», IX, pp. 1070-1085). Il problema dell’identificazione delle cariche che si celano dietro queste titolature è abbastanza complesso (cfr. LUSUARDI SIENA 2004). Sui titoli d’onore in età barbarica cfr. WOLFRAM H. 1967, Intitulatio, «Mitteilungendes Institutsfür Österreichische Geschichtsforschung», Ergbd. 21; sul problema delle dignità bizantine conferite ai principi stranieri CFR. RAVEGNANI G., 1992, Dignità bizantine dei dogi di Venezia, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia, pp. 19-29. (63) Nel monastero di Bobbio si conserva il testo del più antico diploma regio longobardo, tramandato in una copia successiva, che seppure risulta essere fortemente interpolato non è un falso. È un diploma del re Agilulfo, che si fregia del titolo di vir excellentissimus, un predicato che tutti i re longobardi adotteranno dopo di lui, all’interno della dinamica di romanizzazione del potere regio longobardo (cfr. GASPARRI S. 2005, La regalità longobarda, Firenze, pp. 215-217). (64) ROFFIA 1986, pp. 26-42; LUSUARDI SIENA 2004. (65) Forse è possibile spiegare tale assenza con la mancanza, da parte del personaggio inumato, di quel legamecon beni regi o con i territori di valore strategico nei confronti dei Bizantini o contesi tra duchi e sovrano, altroveravvisato (cfr. LUSUARDI SIENA S. 2006, Anulus sui effiggi. Identità e rappresentazione negli anelli- sigillo longobardi, Milano, pp. VII-VIII). (66) Su MARCHEBADUS cfr. KURZE W. 2004, Anelli a sigillo dall’Italia come fonti per la storia longobarda, in LUSUARDI SIENA S.2004, pp. 14-20; LUSUARDI SIENA S.2004, Osservazioni non conclusive sugli anelli sigillari longobardi ‘vecchi’ e ‘nuovi’, in LUSUARDI SIENA 2004, I signori degli anelli, p. 119. (67) In questa fase della storia del Regnum, il re non si considera più il discendente di Aione e neppure il detentore di un foedus con Bisanzio, il re longobardo si presenta come il fondatore di nuove realtà monastiche e religiosi, come portatore di reliquie, come difensore dell’unità della Chiesa, in un clima di chiara imitazione bizantina. Cfr. GASPARRI S. 2005, La regalità longobarda. Dall’età delle migrazioni alla conquista carolingia, in GASPARRI S. 2005 (a cura di), Alto medioevo mediterraneo, Firenze, p. 220.